E’ uscito in Francia, edito da Gallimard (e recensito da una bella intervista di Fabio Gambaro su Repubblica che posso inviare a chi è interessato) un libro di Gilles Lipovetsky e Jean Serroy, intitolato L’esthétisation du monde: vivre à l’age du capitalisme artiste, che pare molto promettente (please see english translation below). Il tema è: nella sua continua trasformazione il capitalismo scopre l’arte e non solo ne modifica la visione romantica, dissociata dal denaro in una nuova versione tutta mercantile, ma riesce addirittura a far entrare l’estetica anche nei prodotti di uso comune; cosicché il consumatore abbia una nuova occasione per esercitare la sua propensione all’acquisto: aldilà della funzionalità, oltre al possesso, al lusso, alle prestazioni, oltre al simbolo e oltre alla convenienza; nella sua corsa ad ostacoli il campione Das Kapital non conosce limiti né confini.
Interessante. Proviamo ad andare oltre. La forza trasformatrice del denaro=valore va oltre qualsiasi immaginazione dei sociologi e degli economisti e sembra potersi trasformare grazie alla sua stessa forza di astrazione dal reale. Il denaro, pura astrazione dello scambio, pervade ogni cosa concreta o astratta che possa essere (anche solo simbolicamente scambiata), così costruendo valori di scambio anche in mondi (quello dell’arte) per millenni ispirati al disinteresse e ad una visione trascendente dei valori (e per questo forse accessibile a pochi). In questo senso (come spiega Lipovetsky) non è certo il Bello inteso dai poeti romantici ad essere scambiato (e pagato) ma una certa qual esperienza estetica: così anche i prodotti dell’arte e della cultura pop (non propriamente sublimi e a volte addirittura trash) così come le auto (seppur tutte molto uguali fra loro) e gli oggetti del design (seppur spesso pretenziosi) come pure una vacanza in un luogo senza arte né parte (ma popolare, cioè pop) assumono un valore perché sono scambiabili come esperienza estetica. Mike Robinson, scultore californiano e grande designer di auto, mi sorprendeva nel confessarmi: “io non disegno più automobili ma esperienze di guida, non linee ma emozioni”.
Ma se il bello è diventato un diritto acquistabile, una ‘cosa’ che non si nega a nessuno nemmeno a chi compra una macchinetta del caffè o una paletta per il giardino, o una crociera, o un paio di mutande; e se tutti sono così tenacemente volitivi quando si tratta del ‘bello’, tanto da rincorrerlo nei più comuni oggetti domestici; allora perché viviamo in contesti sempre più brutti infliggendo alla Natura, originale paradigma del Bello, la più miserabile delle morti estetiche? Perché, diventati esigentissimi sull’impugnatura degli spazzolini, il tatto della carta igienica, le linee degli aspirapolveri e le proporzioni dei cellulari sopportiamo spiagge inquinate, boschi pieni di cartacce, palazzine abusive orrende, materiali edili poveri e derelitti, inquinamento acustico, aria irrespirabile, cibi spazzatura, media indecenti, bassa letteratura, comicità demenziale, scortesia, fretta nei rapporti, insicurezza dei luoghi, etc.?
Probabilmente perché finché si tratta di prodotti ciò che è sollecitato nel giudizio estetico è un carattere soggettivo e individuale facile da accontentare (magari secondo degli stereotipi diffusi) mentre nel progettare (o preservare) la bellezza intorno a noi lo scambio simbolico diventa collettivo, sociale e le cose si complicano, e di molto. Ogni dimensione sociale negata – perché complessa – trova dunque la sua compensazione in un’atto di consumo individuale e solitario: il Grande Bello comune cui aspiriamo in cuor nostro e di cui siamo defraudati viene ricompensato con un piccolo bellino ad uso consolatorio personale.
Questo vuoto deve essere colmato. Ecco una dimensione d’impresa e sociale largamente inesplorata: una domanda senza offerta. Una prospettiva molto promettente.
immagine: nell’era dell’emergenza ecologica bello e brutto sono categorie che si riferiscono anche al modo con cui operiamo accostamenti fra le cose del nostro vivere e l’ambiente che ci circonda: ci tocca raccattare le cose ‘diventate spazzatura’ e portarle in altro luogo più appropriato. In questa ‘translazione’ è rappresentato in maniera concreta il ‘fuori luogo’ del nostro tempo.
ENGLISH VERSION HEREAFTER
Gallimard just published in France a very promissing book by Gilles Lipovetsky and Jean Serroy, named L’esthétisation du monde: vivre à l’age du capitalisme artiste. The clue is: in its continuous transformation Capitalism meets with art and not only does it envelop it in its commercial rules (transforming its original romantic allure); it goes even further by embedding the notion of aestethics within common use objects. As a consequence the consumer has a new occasion to practice his buying routines: beyond functionalities, usefullness, possess, luxury, symbol, convenience he will buy something beautyful.
Therefore money, with its pervasive power of abstraction, conquers new territories entering the domain of art, for milleniums dominated by the trascendent free-of-charge idea of what is supremely valuable. We are not properly talking of the ‘Essence of Beauty’ of course (as described by the Romantics) but of a certain type of subjective experience of it; so to include things (such as Pop Art or most of the automobiles we drive, or design objects, fashion apparel or some vacation spots) that become economically valuable when we can share and exchange our experience of them, talk about them, buy them. Mike Robinson, californian artist and great car designer would tell me: “In a proper sense I don’t design cars anymore but driving experiences, not lines but emotions”. Something you can share and adhere to.
If Beauty can be delivered and acquired, folded into a coffee-machine, or a garden shovel, a cruise, an underwear; and if everybody craves for beautiful things, why then most of the same people live in miserable townships and environments while our civilazation inflicts a deadly blow to Nature, in principle the original pattern of Beauty? Why we are so demanding when it comes to toothbrush handles, toilet paper look’n’feel, vacum-cleaners design, cell-phones colours at the same time tolerating pollution, abusive constructions, poorly built houses, noise, smell in the air, junk-food, trafic jams, demential programs, hasty and aggressive relationships, abuse, criminality, the show of poverty, etc.?
Maybe as far as products are concerned our subjective judgement is easy to be satisfied (with a little help from stereotypes) while in preserving Beauty around us the endeavour is collective and social, so things becoming a bit more complicated. Every social dimension when denied a proper room (on account of its complexity) searches its compensation in a private, solitary act of consumption: the Great Beauty to be shared we shelter in our hearts becomes the little nice we adopt for consolation.
This void ought to be filled in. It’s an enterprise and an interesting perpective.
image: in the era of ecological emergency ‘beautiful’ and ‘ugly’ also refer to the way we put things together in places we live: we collect useful things turned into garbage and take them to another place. This perpetual ‘moving’ practically defines the real ‘waste’ of our times.
Interessante il tuo punto di vista. Sono curioso di leggere l’articolo da te citato. Credo che quanto tu affermi si possa ridurre strettamente alla sfera privata di ciascun di noi. Desiderosi del confort, dell’ultimo “modello”, dell’hi-tech di ultimissima generazione, quasi a dirci che facciamo parte del mondo moderno, e di questo vogliamo dare sfoggio agli amici e conoscenti. Al tempo stessi vogliamo stare lontani dai problemi del mondo stesso che ci circonda solo perchè non sotto i nostri occhi, non nel nostro giardino. Gelosi e premurosi della nostra sfera personale ed altrettanto lontani e disinteressati di ciò che sta una spanna più in la. Credo che a breve ci vedremo costretti ad optare per un modello di vita più sostenibile.
Caro FCM … In un mondo geograficamente conosciuto e topologicamente (apparentemente) controllato dai nostri mezzi che spesso soverchiano qualsiasi Scopo lo sconosciuto è davvero a una spanna da noi e i nostri paesaggi urbani diventano la ‘nuova giungla’. Hic sunt leones … Mentre quelli veri stanno confinati nelle riserve. Ma ridefinire il confine fra il ‘dentro’ e il ‘fuori’ delle nostre esperienze diventa una nuova Impresa.
I like your thinking.
When I was in the Bahamas I took the wrong bus from the resort into town which ended up winding through dozens of villages rather than a straight shot to the town. We two white people sat on the back of the bus (turnabout is fair play) and got to see more of the local culture on our ride. We remarked that every home we saw had a beautiful car parked in front, often with someone cleaning it and polishing it lovingly. Many houses also had a satellite dish. It was Sunday and every person we saw getting onto the bus was dressed beautifully, with a lot of style and pride. However, many of the homes looked rundown and all the yards overgrown.
Our impression was that clothes and cars were a priority and the rest was not.
It is very true, Janet: if you see pictures of brazilian favelas, families have Sat-TV dishes and not even running water. When I worked as a volunteer for Caritas back in the ’80s I was in charge of helping cambodian refugees to settle in Italy. I remember they made all sorts of difficulties to enroll their children at school on account of not knowing the language, etc. etc. and one day I discovered the same people had bought a car and were driving around Tuscany! How could have they?
There must be an explanation to the fact that in modern times superfluous (as depicted by those who already experimented consumerism) is perceived as vital to those that not yet quenched their basic needs.
One easy one would be that the things these people look for promise to enhance their relational/communicational capabilities, thus improving their negotiating power to provide them in the future with all the rest. It is a sort of basic capitalism where the asset they invest in is not spendable at once but ensure them about their future.
Grazie Alessandro, ha colpito anche me l’articolo di Repubblica. Lipotvesky aggiunge anche che, più che la ricerca della bellezza, si ricercano le sensazioni. Penso che il fulcro stia qui. Probabilmente tutti siamo in grado di riconoscere sensazioni “belle”, ma vedere il “bello”, nel senso di saperlo riconoscere richiede educazione. E il denaro, in questa accezione, ha un ruolo relativo. Un resort che garantisce una piacevole sensazione di bello e che è esteticamente apprezzabile in sè stesso, fornisce sicuramente una bella esperienza, ma può rovinare irrimediabilmente il paesaggio perchè contamina la bellezza originale della natura. Bisogna saper guardare. E’ necessaria la capacità di andare oltre. Forse è per questo che il capitalismo-artista non è stato in grado di trasformare il paesaggio urbano, come conclude l’articolo. Credo che abbia ragione l’architetto Pedro Cabrita Reis: “il cantiere anticipia l’architettura, come la filosofia anticipa la sociologia. Perchè nell’architettura si ritrovano le tensioni della società, un intreccio tra individualismo e collettività”. Per questo le nostre città sono così brutte, riflettono la disarmonia sociale e l’impotenza dinanzi a ciò che vediamo brutto, ma sappiamo poter “vedere bello” e soprattutto, “essere bello”.
Sono d’accordo, Ocheroche (che nomignolo!). Penso anch’io che l’architettura stia diventando una metafora centrale della nostra civiltà; mai scontata, sempre problematica accompagna ogni nostra percezione del ‘fare’ e credo che non a caso essa entri con il suo lessico (progetto, cantiere, impatto, valori, sostenibilità, durata, etc.) anche nelle discipline economiche e della gestione d’impresa. Su questo punto Naimation tornerà presto perchè della dinamica evolutiva dell’impresa come ‘luogo del fare’ vorremmo fare il collettore delle nostre riflessioni. Grazie del bel contributo.
Tratto tipico della società a modernità avanzata, l’individualismo. La liquidità presuppone anche il disinteresse per tutto ciò che non ti appartiene direttamente, anche in termini temporali. A che scopo occuparsi della bellezza di qualcosa che non è direttamente tuo e che durerà oltre i tuoi confini? L’estetica degli oggetti funziona anche da an-estetica ‘locale’.
A braccetto con l’ignoranza, spingono l’individuo-particella di massa in comode e rassicuranti pseudoscelte veloci, sempre meno consapevoli.
Eppure Claudio proprio nell’occuparci di ciò che trascende la nostra individualità nello spazio e nel tempo sta la prospettiva della nostra evoluzione come individui e come comunità. Sembra che sia quasi diventato un problema lessicale: ci mancano (abbiamo perso) le parole per articolare un pensiero collettivo. Una parte della crisi ‘economica’ è riconducibile anche a questo. Nella sfera delle emozioni questo ci è evidente, in quella razionale il discorso si tronca a metà … Ma se pensi ad Aristotele (per citare non proprio un contemporaneo) la sfera politica è quella parte del discorso; e anche ai suoi tempi il problema era pienamente manifesto, tanto che per definire la sfera individuale egli usava il termine ‘idiotes’, ciò che non va oltre l’individuo! L’uomo confinato nella sfera della sua ‘idiozia’, perlappunto.
sono daccordo con la (triste) analisi di Claudio.
Aggiungo… che la bellezza (comunque la vogliamo intendere o cercare, con criteri che siano oggettivi o soggettivi) dia piacere, è indubbio. Se però conta solo il risultato finale, diventa molto più semplice e meno faticoso comprarla rispetto a costruirla. Ci si dimentica però che spesso il processo di costruzione di qualcosa regala una fetta significativa del piacere di raggiungere un risultato. Un pò come il viaggio è spesso il vero godimento rispetto al raggiungere una destinazione…
… se il ruolo di produttore e di consumatore (e anche di distributore) vengono mantenuti separati o se possono (anche in parte) coincidere, allora sono gli economics sottostanti che cambiano … cioè la modalità di produzione e distribuzione del reddito. questo è il quesito. segnalo oggi su repubblica una bella intervista al proposito di Remo Bodei. chi la volesse gliela invio.
Molto interessante, anche io immagino che il “piccolo bellino” possa servire in qualche modo per compensare il non riuscire a raggiungere la bellezza e la cura nelle cose che appartengono alla comunità. Sarebbe interessante vedere se c’è un po’ di correlazione tra paesi che fanno della valorizzazione del territorio e della natura il loro credo e vendite di prodotti o servizi individuali esteticamente studiati e curati. Probabilmente sì.
Cedo ovviamente che per alcuni oggetti ci sia ancora soltanto una volontà di fare colpo su chi ci sta attorno, impressionando con oggetti pregiati; ma ci sono anche molti casi in cui la bellezza appartiene effettivamente ad oggetti che difficilmente o raramente verranno visti da altri, tu citi giustamente alcuni elettrodomestici, per le mutande chissà… 🙂
Tutto sommato però credo che non sia un tratto umano “nuovo”: da sempre l’uomo cerca di rendere il più gradevole possibile quello su cui ha controllo. C’è però bisogno di un “confine”, altrimenti lo sforzo sembra troppo grosso e non vale la pena percorrerlo; un tempo potevano essere le mura di una città fortificata o di un palazzo pieno di sfarzo, mentre fuori c’era il niente o il “brutto”. L’uomo moderno potrebbe entrare in una nuova dimensione in cui il confine non serve più e il bello è ovunque, nella natura e nelle cose di tutti. Ma questo richiede regole certe e soprattutto una fiducia collettiva nel prossimo che ahimé poche collettività oggi possono vantare.
Si, il fatto estetico ha almeno due valenze: un valore di scambio simbolico, nel senso che vuole connotare una intenzione, ma anche un potere, una collocazione sociale, una postura; e nel contempo contiene – invece – una valenza puramente emotiva, privata, priva di ogni intenzione negoziale. questo secondo aspetto sembra sottrarsi alle logiche economiche ed entrare in una sfera più profonda. seguendo il tuo ragionamento: i Paesi che hanno a cura l’ambiente trasmettono un forte valore di coesione collettiva; quelli che se ne fregano trasmettono una sorta di egocentrismo entropico, uno spreco esistenziale.
noto che in tutti gli interventi, compreso il tuo, ciò che sta a cuore è la prospettiva esistenziale e non il ‘fatto tecnico’. sembra che l’economia e i suoi ‘fatti’ siano diventati una enorme occasione per riflettere sulla civiltà.
Molto interessante sia il post sia tutti i commenti. Non posso non pensare alle riflessioni di Gillo Dorfles, in particolare a Horror Pleni.
Che il bello oggi sia forse l’esercizio del sottrarre anziché del sommare? Sono personalmente, grazie ad un provvidenziale trasloco, in piena fase di riduzione di orpelli non più necessari, di revisione integrale di ciò che è utile da ciò che è inutile. Vestiti, soprammobili, carte vecchie, libri che non meritano di essere riletti, elettrodomestici desueti…
Recuperare uno sguardo che miri all’essenziale passa anche attraverso queste azioni distruttive e per certi versi ri-creative.
Rispetto alle riflessioni proposte non mi trovo d’accordo sul concetto che l’arte diventa merce di scambio con il capitalismo. L’arte in verità ha sempre avuto un valore. Gli artisti più eccelsi sono sempre stati ricercati e contesi a suon di soldi dai tempi antichi fino al Settecento. È solo dopo le grandi rivoluzioni che si afferma il mito dell’artista bohemien, povero in vita e prisioneiro del suo talento, e osannato dopo la morte. La parabola esistenziale di Modigliani è in tal senso, emblematica. Ben venga un ritorno ad un’epoca in cui l’artista possa vivere del suo lavoro di artista.
sono d’accordo. una sola piccola osservazione: la committenza artistica fino al ‘700 era esercitata a suon di soldi, sì, ma ad una classe ristretta di potentati e non certo da una dinamica di mercato.
pienamente d’accordo sul lato umanistico. ma quali sono le implicazioni economiche della ‘riduzione’? come si regge il passaggio da una civiltà che basa ogni suo aspetto sociale, educativo, culturale, istituzionale, giuridico e morale sul consumo superfluo e sulla sua derivata seconda, cioè il debito e la speculazione finanziaria, ad una società che rallenta verso una nuova configurazione dei bisogni? qual’è il profilo dell’impresa economica in un contesto del genere? quale il nuovo livello di coesione sociale? questi sono gli interrogativi che urgono. prendo atto che sul fronte emotivo un numero sempre crescente di persone sta già considerando la trasformazione in atto come inevitabile e lo comunica senza pudore. ma come questa intuizione possa passare nella sfera razionale del progetto di una nuova civiltà è qualcosa di straordinariamente interessante. e da dibattere.