Pitti Taste è la rassegna fiorentina che tratta il tema del Cibo all’interno di Pitti immagine. Inserito anche quest’anno nella cornice un po’ strana della stazione Leopolda a Firenze, è stato un evento molto vivace: un luogo divertente e disimpegnativo dove si può entrare in contatto con grande semplicità col meglio dei produttori italiani di cibo. C’è un’area molto vasta dedicata alla presentazione ed alla degustazione e una sorta di mini-market dove si possono comprare le cose che si son viste esposte. Ci siamo incontrati lì qualche giorno fa con Attilio Giuliani che alla perfezione assomma in sé la passione per il marketing e quella per il cibo, essendo modenese … Francamente eravamo entrambe abbastanza a nostro agio e ben rappresentati: io – infatti – sono toscano …
A programma si è tenuto un interessante dibattito sul tema se la contraffazione dei marchi italiani del cibo (parmigiano, mozzarella, pasta, etc.) fossero solo un danno o anche una opportunità per i produttori. Diversi gli interventi ma essenzialmente riconducibili a due posizioni fondamentali: coloro che facevano appello alla normativa tout-court e ad altre forme di difesa corporativa e coloro che insistevano che la vera difesa di un mercato è l’iniziativa commerciale. Al dibattito partecipavano diversi rappresentanti dei produttori consorziati, Confagricoltura e anche Tom Mueller (autore di un interessante inchiesta sull’olio italiano incentrato ironicamente sul concetto di ‘extraverginità’), Oscar Farinetti (ormai mitico fondatore di Eataly) e Oliviero Toscani (carismatico fotografo che ha un po’ rivoluzionato la fotografia commerciale, qui nella veste inusitata di produttore di olio)
Nel dibattito si faceva notare come nell’uso dei marchi altrui nessuno fa eccezione visto che le nostre azienda fashion usano da sempre e con grande disinvoltura nomi tipo ‘jeans’ che sono di chiara matrice USA (seppure qualcuno si esercita anche nella esegesi che si tratti in origine di un nome genovese; cui poi in francesi ribattono che no, si tratta della città di Nimes, ci mancherebbe!).
Ma a parte il dibattito di principio, il tema non era così accademico: in fin dei conti si parlava di un settore importante industria importante per l’Italia perché assomma diverse valenze notevoli essendo fonte di occupazione, portando un’immagine altissima all’export, riflettendo – infine – perfettamente il nostro italico modo di (non) fare sistema eppure di vincere quando vogliamo e ci sono le condizioni adatte … qualcuno poi stimava (queste benedette stime economiche campate in aria) che si potesse trattare di un potenziale danno di miliardi di euro.
A parte le schermaglie, da punto di vista della nostra riflessione la vera sintesi la si è raggiunta faticosamente solo dopo un’ ora grazie agli interventi illuminanti di tre persone:
– Mario Cichetti, il presidente del consorzio del prosciutto San Daniele (nel ruolo ideale del produttore) ha fatto capire che la coerenza e la profondità del concetto di qualità (almeno nel food) va fino alle fonti e cioè alla materia prima: non basta essere dei bravissimi trasformatori, bisogna anche allevare i capi (in questo caso). Una faccenda non da poco se si pensa – per esempio – che la produzione di latte in Italia potrebbe non essere sufficiente se si volesse produrre molto più formaggio in diverse varietà e di grande qualità esclusiva in quantità significative. Seppure molte cose son state fatte in Italia anche con grande onestà, la questione si complica quando implica scelte di fondo che forse abbiamo qualche difficoltà a fare visto che – come si ricordava – il disciplinare della mozzarella di bufala (non propriamente un prodotto aerospaziale … ) fluttua da anni da un ministro a quello successivo.
– Oscar Farinetti (nel ruolo di mercante che ben gli si addice) ha fatto un intervento straordinariamente persuasivo perorando la causa della costituzione (ma quante volte ci abbiamo provato?) di un marchio ITALIA da apporre a tutti i prodotti senza distinzione che possano provare di essere di provenienza nostrana, dalla materia prima al prodotto finito; segue corollario di idee su come fare il lancio dell’iniziativa perché possa avere un successo planetario … Farinetti su queste cose va lasciato stare …
– e infine Oliviero Toscani che, nel ruolo perfettamente calzante del filosofo morale, obiettava a Farinetti che per realizzare la sua idea brillante ci vorrebbe un grado di cooperazione, solidarietà, onestà e trasparenza fra i produttori inimmaginabile per la nostra cultura e mentalità dove noi eccelliamo come individui ma come aggregato siamo assolutamente trascurabili: noi che – ricordava Toscani – siamo arrivati alla qualità dopo che fin solo a trent’anni eravamo quelli che facevano il vino con l’etanolo!
Queste tre posizioni disegnano una contraddizione ma anche un monito che dobbiamo affrontare a viso aperto, adesso: le persone per anni hanno consumato in grande quantità a poco prezzo cose di poco valore e adesso che ci sono gli strumenti cognitivi, culturali ed anche un mercato per l’eccellenza, la stragrande maggioranza non ha soldi in tasca per permettersela … Cosa possono fare i nostri produttori ed i distributori per risolvere questa contraddizione da cui dipende una bella fetta delle loro speranze di sviluppo? Come aprire una nuova prospettiva per l’eccellenza di cui possa beneficiare anche il mercato interno e non solo l’esportazione? In generale (perché il quesito non riguarda solo il food ma anche – per esempio – la moda o il turismo e – perché no – anche l’automotive): è possibile che luxury (ammesso che questa sia la parola giusta) possa significare un’esperienza distintiva per i più e non solo un’esperienza discriminante per pochi? E come possiamo e con quali strumenti operativi chiarire una volta per tutte la nostra vera vocazione ed intraprendere e comunicare un cammino di utilità? Noi come italiani, intendo. Questo si che potrebbe essere un vero Rinascimento, cioè un modo con cui facendo bene si mostrino al Mondo valori che altri desiderino fortemente imitare.
PS: mentre abbozzavo questo post: in questi giorni apre a Milano un altro punto di vendita di Eataly e son subito code per entrare. Poco prima in Toscana apre l’ennesimo punto vendita (il secondo nella regione!) di Ikea ed anch’esso viene preso d’assalto. Due segnali ben distinti nelle loro conseguenze: il primo è un segnale confortante in assoluto; il secondo è un’altro segno della decadenza, tanto più che non molto tempo fa non lontano da quella zone del pisano c’era un distretto del mobile piuttosto sviluppato e praticamente morto senza nemmeno combattere. Perché?
immagine: Giovanni Segantini (qui due suoi paesaggi alpestri) alla fine del ‘900 inaugura la tecnica divisionista (di cui resta uno dei massimo esponenti): piccole macchie di colore riflettono individualmente al meglio la luce del sole ma da una certa distanza il soggetto si ricompone in un tutt’uno dove la profondità è letteralmente inondata dalla luce.
Di alimentazione non so molto. Però sul distretto pisano del mobile posso dire che hanno perso tutti i treni possibili in termini di innovazione e opportunità e ascolto del mercato. Ben venga allora IKEA, che ad ogni nuovo punto vendita impiantato aumenta anche la fornitura delle materie prime e semilavorati del territorio che lo ospita.
Ci sono interi settori che – con buona pace dei cantori dell’italico fare impresa – non hanno innovato per anni ma soprattutto non hanno evoluto i loro modelli commerciali, industriali, di partnership … E quando arriva un vento un po’ forte (e Ikea, con buona pace, non è che sia proprio una novità …) si lasciano morire di un cupio dissolvi senza reazione. Non so nemmeno se per questi comparti valga la pena di invocare investimento pubblico o privato perché investire in aziende che non innovano da 20 anni sarebbe uno spreco.
Ma per fare quella innovazione che oggi i tempi suggeriscono non basta un prodotto nuovo o ha nuova tecnologia ma un nuovo modo di pensare tutta la catena del valore. Significa forse che singole imprese non possono farla perché l’innovazione di sistema richiede un accordo preventivo di molti attori? No, non è necessario; i fattori di innovazione sono sempre individui o aggregati di individui che imprimono intorno a sè una specie di spin che porta altri ad aderire, imitare, competere . Penso ad aziende come Luxottica, Ferrero, ma anche a Eataly … o a Ampliphon … intorno alle quali si crea un eco-sistema, un nuovo sistema di equilibri e nuovi capitali. Ma anche nuovo interesse, competenze, entusiasmo.
Eppure la dimensione reale della innovazione non è mai nelle considerazioni perché in Italia abbiamo un riflesso condizionato che ci porta a pensare che le aziende abbiano bisogno di sostegno essenzialmente perché si mantenga un livello di occupazione a tutti i costi laddove l’occupazione era 20 anni prima. E a quelle imprese cui si da poi si toglie con politiche fiscali, vincoli industriali, lacci, laccioli e ricatti. Non ci si immagina che esistano GIÀ nuovi modelli, nuove professioni, nuovi mestieri, nuove categorie di bisogni e di utilità, nuove catene del valore, … cose letteralmente mai viste prima e men che mai catalogate e categorizzate nelle provvidenze dei vecchi sistemi politici, sindacali e di interesse.
La coscienza collettiva e la cultura devono rapidamente muoversi per influenzare positivamente ogni cosa che sia legata al nuovo e soprattutto collegata agli interessi delle classi elargenti e dei giovani.